DOCUMENTI
CASO CODAZZI.
APPELLO ALLA CONDANNA PER CALUNNIA
«Nemmeno
i figli si possono difendere così!»
Come ha fatto il Tribunale con i
Carabinieri: da difendere e proteggere sempre e comunque
A
dispetto della verità e, in questo caso, anche della decenza
di FRANCA ALESSIO
(Morbegno - Red.) Pubblichiamo il testo integrale dei motivi di
appello alla sentenza del Tribunale di Sondrio (N. 104 del 10 giugno
1997) che ha condannato Luciano Codazzi per calunnia. Riteniamo
infatti che la chiarezza usata dal legale nell'esposizione e la
stessa evidenza dell'inconsistenza dell'impianto accusatorio,
facciano risultare di facile comprensione l'impugnazione. E ciò
sia per quanti hanno seguito le precedenti "puntate" del
«Giallo del furgone», comparse su questo giornale a
partire dal Marzo '96, sia per quanti eventualmente si accostassero
alla vicenda per la prima volta.
La documentazione ci sembra di
estremo interesse per tutti e per questo ringraziamo l'Avv. Alessio,
assieme al diretto interessato, che ne hanno consentito la
divulgazione.
Le considerazioni, inquietanti considerazioni, le
lasciamo questa volta tutte al lettore, avendole questo giornale già
tratte in occasione dei precedenti interventi.
(L'articolazione in paragrafi e relativa titolazione, per
facilitarne la lettura, sono a nostra cura).
Tribunale
di Sondrio
Atto di impugnazione e contestuali motivi
La sottoscritta Avv. Franca Alessio, difensore di fiducia di Codazzi Luciano, come da dichiarazione di nomina allegata,
DICHIARA
di proporre impugnazione avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Sondrio in data 10.06.1997 e depositata in pari data, con motivazione contestuale, notificata all'imputato contumace in data 25.06.1997, nel procedimento penale n. 251/94 R.G. Notizie di reato e n. 107/95 R.G. Tribunale, sentenza con la quale il Sig. Codazzi è stato condannato alla pena di anni uno e mesi 8 di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche, per il reato di calunnia. La sentenza è gravemente ingiusta, proponendosi di mettere fine a un caso giudiziario complesso, come quello che ha visto per protagonista il Codazzi, con una condanna, oltretutto esemplare, se si considera che la misura in concreto irrogata supera le stesse richieste del Pubblico Ministero. Il Codazzi, da vittima, viene trasformato in colpevole. Infatti la sentenza del Tribunale si fonda su clamorosi errori di fatto.
CHI È
IL VERO UBRIACO?
Vi si legge infatti che il Codazzi,
alla guida del suo furgone, sarebbe stato fermato da una pattuglia
dei Carabinieri, in quanto stava procedendo zigzagando e che in
quell'occasione l'imputato è risultato in stato di ebbrezza. A
riprova il Tribunale fa riferimento a un certificato medico, redatto
in pari data presso la Caserma dei Carabinieri, nel quale il medico
riferisce come diagnosi: "agitazione psicomotoria da probabile
intossicazione acuta da alcool", ma quel "probabile"
per il tribunale di Sondrio diventa: "l'imputato è
risultato in quell'occasione in stato di ebbrezza alcoolica (vedi
referto medico 18.05.1990 ore 4)".
Dimentica però il
Tribunale che il Codazzi venne rinviato a giudizio per il reato di
cui all'art. 688 C.P. "perché si faceva sorprendere in
luogo pubblico in stato di manifesta ubriachezza" e per il reato
di cui all'art. 132 Codice della Strada "perché si poneva
alla guida in stato di ebbrezza". Il processo, celebrato il
02.05.1991, si concluse con la assoluzione dell'imputato, come
risulta dalla sentenza che si allega. In particolare il Pretore ha
pronunciato sentenza di non doversi procedere in relazione alla
contravvenzione al Codice della Strada, non essendo stata fornita la
prova della notificazione ai sensi dell'art. 143 C.d.S. Ne deriva che
i Carabinieri fecero tutto quello che fecero, ovvero trattennero in
Caserma ore il Codazzi, chiamarono la guardia medica, gli impedirono
di riprendere il suo furgone, togliendogli di mano le chiavi, gli
impedirono persino di togliere dal furgone il portafoglio con i
documenti, ma non fecero l'unica cosa che avevano la facoltà
di fare, ossia contestargli la violazione del Codice della Strada.
Stante ciò, ci domandiamo seriamente come il Tribunale di
Sondrio abbia potuto trascurare tutti questi fatti; non possiamo
credere che l'abbia fatto per pura superficialità e non
conoscenza delle carte processuali (si tratta invero di un processo
che si è trascinato per ben 5 udienze), ma allora non possiamo
che pensare che la sua unica preoccupazione fosse quella di
legittimare il comportamento dei Carabinieri a qualunque costo, così
da arrivare alla paradossale conclusione che il Codazzi, vittima di
una clamorosa e palese ingiustizia, diventasse il colpevole, pur di
farlo star zitto, pur di mettere fine a una "faccenda" che
ha coinvolto all'inizio solo i Carabinieri, ma poi anche il Sindaco e
infine il Tribunale, dal quale invece ci si aspetterebbe una serena
visione dei fatti e una giustizia non di parte.
Ma torniamo alla
sentenza del Pretore. Dall'imputazione di cui all'art. 688 C.P. il
Pretore ha assolto, in quanto non ha ritenuto raggiunta la prova
dello stato di manifesta ubriachezza del prevenuto e per sostenere il
suo convincimento il Pretore si basa proprio su quel certificato
medico redatto in Caserma subito dopo il fermo, nel quale il medico
non ha potuto affermare con certezza lo stato di intossicazione
etilica acuta. Su quello stesso certificato paradossalmente si basa
invece il tribunale per sostenere la legittimità del fermo
operato dai Carabinieri. Ci sembra che questo sia già un punto
decisivo per inficiare le premesse in fatto sulle quali il Tribunale
di Sondrio sembra basare il suo convincimento in ordine alla
colpevolezza dell'imputato.
I
FATTI NON SONO ANDATI PROPRIO COSÌ...
Ma vi è
di più. Il Tribunale, sempre nell'intento di giustificare
comunque l'operato dei militi, sostiene che gli stessi provvedevano
legittimamente al fermo del veicolo, "al fine di non consentire
la prosecuzione della guida in stato di ebbrezza", dimenticando
che i fatti non si svolsero affatto nel modo descritto. Infatti il
Codazzi venne fermato dalla pattuglia sulla Statale 36 e invitato a
risalire sul suo furgone guidandolo per seguire l'auto dei militi
fino alla Caserma di Novate Mezzola, dove il furgone venne dal
Codazzi stesso parcheggiato nel piazzale vicino alla Caserma. Non
furono quindi i militi a impedire la prosecuzione della guida, ma
anzi furono loro ad invitare il Codazzi a proseguire e non furono
loro a parcheggiare il furgone davanti alla Caserma, ma il Codazzi
stesso. Ciò risulta dagli atti del processo, a seguito del
quale il Codazzi appunto fu prosciolto dall'imputazione di guida in
stato di ebbrezza. Sarebbe stato legittimo il fermo del veicolo, se
fosse stato immediato, se cioè i militari gli avessero
impedito subito di proseguire, accertando condizioni che, secondo
loro, erano di impedimento alla guida, ma non è certo
legittimo il fermo del veicolo operato a distanza di almeno due ore,
dopo aver loro stessi imposto al Codazzi di riprendere la guida per
seguirli in Caserma. Il Tribunale dice che furono i Carabinieri a
parcheggiare il furgone, ma ciò, come abbiamo detto, non
corrisponde affatto a verità, in quanto i Carabinieri tolsero
al Codazzi le chiavi del furgone dopo averlo finalmente lasciato
libero di andarsene, ma a piedi, senza documenti e senza portafoglio.
DIFENDERE
A TUTTI I COSTI L'OPERATO DEI CARABINIERI
Aggiunge il
Tribunale che i militari nella stessa mattinata avvertivano il nipote
del Codazzi, il quale il giorno stesso o il giorno successivo
sostiene di aver avvertito l'imputato della facoltà di
ritirare il furgone. Ora i militari non solo non notificano al
Codazzi la contravvenzione al codice della strada, ma, con raro
esempio di discrezione, si premurano di riferire al nipote tutto
quanto successo, pur essendo in possesso di tutti i suoi dati
anagrafici.
Perché mai una persona, che abbia della
dignità, dovrebbe sopportare tutto questo? Perché mai i
Carabinieri che hanno fermato il Codazzi, che hanno accertato che il
furgone era di sua proprietà pensano di non dire nulla al
proprietario, ma di avvertire un nipote? Qualcuno avrebbe dovuto
spiegarci perché. Non risulta che il Codazzi sia persona
incapace di intendere e di volere; non è né interdetto,
né inabilitato, il nipote non è quindi il suo tutore,
né il suo curatore; i Carabinieri avrebbero dovuto rivolgersi
direttamente all'interessato, proprietario del furgone, mandargli un
invito scritto a presentarsi per il ritiro del mezzo e non certo
limitarsi a dire al nipote: "diglielo tu". Così
facendo certo non si sono comportati in maniera corretta e forse
anche la sottoscritta sarà denunciata per calunnia.
Ma,
anche ammesso che i Carabinieri avessero una spiegazione da dare, che
per altro mai hanno fornito, quello che è veramente e
terribilmente inaccettabile è che il Tribunale trovi tutto ciò
del tutto giustificato e lo riferisca come se così
precisamente si dovesse fare; e se il Codazzi, in assenza di una
qualunque comunicazione diretta a lui, ritiene di avere diritto a una
qualche comunicazione e aspetta, peggio per lui; dopo una settimana,
sempre senza dirgli niente, gli rimuovono il furgone, lo
trasferiscono presso un pubblico custode e da quel momento decorrono
anche, a suo carico, gli oneri di custodia. Va tutto bene così?
È proprio così che si deve fare? Siamo sicuri?
Ma
non solo. Il furgone, che non era sottoposto a provvedimento di
sequestro (il Tribunale lo scrive chiaramente) viene sottoposto ad
ispezione, immediatamente effettuata, ma da chi, quando, dove? Il
Tribunale non lo dice. E perché mai non si è avvertito
il Codazzi che il suo automezzo, non sottoposto a sequestro, sarebbe
stato sottoposto ad ispezione e a quale fine? in base a quale
provvedimento? Il Tribunale non lo dice. Sembra aver dimenticato
tutto nell'esasperato tentativo di difendere a tutti i costi
l'operato dei Carabinieri. Ma nemmeno i figli si possono difendere
così e non risulta che un tribunale debba trattare i
Carabinieri come i propri figli da difendere e proteggere sempre e
comunque a dispetto della verità e in questo caso anche della
decenza. Ci domandiamo e vi domandiamo se tale prassi debba essere
considerata legittima.
LA LETTERA DELL'AVV. ROMUALDI
Veniamo
ora al motivo per cui il Codazzi è stato tratto a giudizio per
calunnia. Il motivo è una lettera scritta e firmata dall'Avv.
Romualdi datata 30.11.1993, che lo stesso sostiene di avere scritto
su precise indicazioni dell'imputato; del resto non vi è da
sorprendersi se l'Avv. Romualdi fa simili affermazioni, in quanto
l'alternativa legittima sarebbe quella di sottoporre il firmatario a
procedimento per calunnia. Ma il Tribunale, se avesse voluto far
giustizia, un'alternativa l'avrebbe avuta, ossia quella di quantomeno
leggere l'interrogatorio reso dall'imputato al Pubblico Ministero in
data 06.04.1994; se ne è invece completamente scordato. In
quell'interrogatorio il Codazzi ha dichiarato di non aver mai
riferito all'Avv. Romualdi che sul furgone erano custoditi L.
4.000.000 in contanti; di aver piuttosto riferito che alcuni giorni
prima si trovava a Roma, e che in quell'occasione era in possesso
dell'importo di L. 4.000.000 in contanti, di averne spesi in parte e
di non sapere esattamente quanto gli fosse rimasto. Ha anche
aggiunto: "il denaro in mio possesso viene solitamente nascosto
sul mio autocasa", precisando: "dovrei rientrare in
possesso di tutta la mia contabilità per stabilire se la
giacenza è esatta". Quindi non risulta da nessuna
dichiarazione e nemmeno dalla lettera dell'Avv. Romualdi che il
denaro fosse nel portafoglio, mentre i Carabinieri si sono sentiti
calunniati, avendo frainteso, tanto è vero che in tutte le
loro deposizioni fanno riferimento al contenuto del portafoglio. Il
Codazzi l'aveva pur detto che il denaro lo nascondeva sul furgone e
non sapeva quanto gliene era rimasto; certo non si riferiva al
contenuto del suo portafoglio e, siccome il furgone è stato in
mano a diverse persone dopo che venne sottoposto al fermo da parte
dei Carabinieri, chiunque può aver trovato quella somma, o
meglio quanto era rimasto di quella somma, ed essersene impossessato.
Il Tribunale ha dato credito alla lettera dell'Avv. Romualdi,
traendone motivo di denunciare penalmente il Codazzi, le cui querele
presentate a più riprese, sia in questo fascicolo che in
altri, sono state tutte archiviate, senza mai dar luogo a rinvii a
giudizio per calunnia. In particolare vedasi la querela in atti
sporta contro la Moiola Car, "custode"
del veicolo. L'Avv. Romualdi aveva sì sottoposto al Codazzi
una lettera, ma diversa da quella che poi, per sua esclusiva
iniziativa e senza più contattare l'interessato, decise di
spedire. La lettera, che si allega, è datata 18/11/1993 (la
stessa data riportata nella motivazione della sentenza e poi
corretta) e venne consegnata al Codazzi; del fatto che in data
30/11/1993 fosse stata spedita altra lettera, per di più di
diverso contenuto, il Codazzi non seppe mai nulla, venendone a
conoscenza per la prima volta solo in sede di interrogatorio avanti
il P.M. in data 06/04/94. È proprio paradossale che il Codazzi
debba rispondere di un simile reato proprio per l'unica
lettera-esposto non firmata dal medesimo, ma dal suo avvocato, che
dichiara di riferire quanto appreso dal Codazzi e che non ha nemmeno
il legittimo dubbio di aver frainteso le sue affermazioni.
IN
CONCLUSIONE:
UNA SENTENZA PROFONDAMENTE SBAGLIATA...
La
sentenza è quindi profondamente sbagliata e gravemente
ingiusta innanzitutto perché sostiene che la condotta dei
militari operanti si appalesa immune da qualsivoglia censura e che
quindi l'elemento oggettivo del reato deve ritenersi pienamente
configurato; in secondo luogo perché ritiene sussistente
l'elemento soggettivo, sulla base della falsità dei fatti
contenuti nella denuncia in atti che comunque non è di
provenienza dell'imputato. Nel caso di specie, il Codazzi, ignaro
delle conseguenze di aver raccontato al suo avvocato determinati
fatti, forse in modo confuso e agitato, non può ora rispondere
penalmente con una condanna a quasi due anni di reclusione di quello
che poi è arrivato sul tavolo del Magistrato, che ha ritenuto
di avviare l'azione penale nei confronti del Codazzi, archiviando
tutte le altre querele che il Codazzi personalmente ebbe a presentare
e naturalmente non iniziando alcun procedimento penale a carico dei
Carabinieri.
Così puntualmente ricostruiti i fatti, non vi
è dubbio che l'imputato andasse prosciolto, dovendo
assolutamente escludersi una sua consapevolezza dell'innocenza dei
Carabinieri; è pacifico che, in questo caso, viene meno in
toto il dolo, per la sussistenza del quale è necessario che
l'accusatore abbia la certezza dell'innocenza dell'incolpato; così
che, se solo sussistesse il dubbio circa la certezza dell'imputato
della colpevolezza della persona incolpata, l'imputato dovrà
essere assolto non con la formula dubitativa, ma con la formula
piena, esulando del tutto in tal caso il dolo richiesto per la
configurabilità del reato. "L'erroneo convincimento della
colpevolezza dell'accusato è di per sé idoneo ad
escludere la certezza dell'innocenza dello stesso e, come tale, il
dolo dell'agente, qualunque sia la natura e il fondamento di detto
errore". L'imputato deve quindi essere prosciolto "perché
il fatto non costituisce reato".
Si allegano:
1)
Copia della sentenza - Pretore di Morbegno n. 76/91 depositata il
02/05/1991.
2) Dichiarazione di nomina a difensore.
3) Copia
lettera 18/11/93 Avv. Romualdi / Avvocatura dello Stato e altri.
Lecco-Sondrio, il 3/7/97
(da 'l Gazetin, SETTEMBRE 1997)
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