caso Fallimento GIANONCELLI |
FALLIMENTOPOLI. IL CASO DEI FRATELLI GIANONCELLI DI SONDRIO
I
piatti pendenti della bilancia
al Tribunale di Sondrio
Un
lampo di genio e un socio di una società di persone è
bello che sollevato dal pagamento delle obbligazioni sociali
Chi
ci crederebbe se non capitasse sotto casa?
a cura del Comitato territoriale "INSIEME PER LA GIUSTIZIA"
In tutti i Tribunali troneggiano
le belle e rincuoranti parole "La legge è uguale per
tutti". La giustizia viene raffigurata come una donna (bella e
irraggiungibile) con la bilancia, simbolo di equità. È
emblematica la statua della giustizia nella vecchia sede del
Tribunale di Sondrio (i piatti della bilancia pendono). Difetto
d’autore o presagio?
Tutti i cittadini sono uguali davanti
alla legge ma, per dirla come Sciascia, alcuni cittadini sono più
uguali degli altri. I fratelli Franco e Peppino
Gianoncelli, soci dichiarati falliti della Gianoncelli Franco,
Peppino e Bruno Snc, ne sanno qualche cosa. Da un lato ci sono loro,
che, per aver alzato la testa, sono sottoposti a ogni sorta di
soprusi e, dall’altro, c’è il fratello Bruno,
che ha tra i suoi più fervidi difensori nientemeno che Giudici
del Tribunale di Sondrio e il curatore del fallimento, dott. Marco
Cottica. Tutto questo iperprotezionismo ruota attorno a una
dichiarazione di recesso unilaterale, priva di qualsiasi efficacia,
dal contenuto non veritiero che Bruno Gianoncelli,
all’insaputa dei soci e dei creditori, ha sottoscritto davanti
al notaio Franco Cederna, al fine di potersi sottrarre alla
procedura di fallimento, sperando persino di non essere chiamato a
pagare i debiti della Società. Siamo in grado di dimostrare
con documentazione probatoria quanto qui affermato. Vista la
complessità dell’argomento, per rendere accessibile a
tutti i lettori questa vicenda, cercheremo di usare un linguaggio
semplice, citando esempi, laddove è inevitabile il
tecnicismo.
La Società Gianoncelli Franco Peppino e Bruno è
una società in nome collettivo, ovvero una società
in cui i soci rispondono delle obbligazioni sociali (debiti),
solidalmente (come i moschettieri: uno per tutti, tutti per
uno), e illimitatamente (il socio fino all’estinzione
dei debiti risponde con tutto il suo patrimonio, mobiliare e
immobiliare, presente e futuro). Il socio di una società in
nome collettivo può essere liberato dal rapporto sociale solo
se lo consente lo statuto della società, oppure per giusta
causa. Nel caso in cui avvenga a norma di statuto, il recesso avviene
per atto notarile sottoscritto da tutti i soci (non da uno solo), i
quali rilasciano nel medesimo atto quietanza liberatoria per la
liquidazione della quota. La giusta causa, al contrario, non può
che essere accertata dal Tribunale per effetto di giudizio promosso
dal socio dissenziente. Il giudice, nell’ipotesi riconosca la
giusta causa, stabilisce anche la regolazione (attiva o passiva)
della quota. Il socio, ancorché receduto, è, in ogni
caso, tenuto a pagare, anche a distanza di anni, se non lo fanno i
soci rimasti, tutti i debiti della società sorti fino
alla data del recesso (si badi, tutti i debiti e, quindi,
anche quelli degli altri soci).
I soci Franco e Peppino
Gianoncelli non hanno mai liberato il socio Bruno Gianoncelli dal
rapporto sociale, in quanto lo stesso ha categoricamente rifiutato di
ripianare, per la quota di sua competenza, il passivo sociale. Per
contro, la giusta causa, per cui Bruno aveva promosso e riassunto
causa civile, non è stata mai accertata dal Tribunale di
Sondrio, in quanto il processo è stato interrotto per effetto
dell’intervenuta dichiarazione di fallimento.
.Il cosiddetto
atto di recesso unilaterale, nonostante il nome importante,
altro non era che una semplice dichiarazione priva di efficacia
giuridica. Il notaio si è limitato ad autenticare la firma,
senza manco ammonire il dichiarante sulle responsabilità in
ordine alle mendaci affermazioni. Per chiarire meglio questo concetto
precisiamo che la dichiarazione aveva, né più, né
meno, l’efficacia che potrebbe avere una dichiarazione in cui,
una persona alta un metro e 25, dichiara, con firma autenticata dal
notaio, che é alta due metri (il notaio non ha alcuna
responsabilità e la persona, se viene creduta, buon per lei).
L’aspetto esteriore della dichiarazione di recesso unilaterale
è, tuttavia, simile a quello di un vero e proprio atto
notarile. La forma era talmente perfetta che la dichiarazione è
scivolata, non si sa come, tra gli atti a valenza esterna che il
notaio Franco Cederna ha presentato in quel periodo alla Camera di
commercio per gli adempimenti a lui demandati dalla Legge. Il
Conservatore della Camera di commercio, pur’egli ingannato
dall’aspetto formale, ha cancellato il sig. Bruno Gianoncelli
dal registro delle imprese, senza aver preliminarmente effettuato gli
obbligatori controlli di legge, tra i quali, quello primario di
accertare se l’atto fosse stato notificato agli interessati,
ovvero alla società, ai soci Franco e Peppino Gianoncelli e,
singolarmente, ai creditori sociali.
Veniamo ora alla
dichiarazione non veritiera. Verso la fine del 1992, i soci Franco e
Peppino Gianoncelli proposero al socio Bruno Gianoncelli di vendere
un capannone di proprietà indivisa per rientrare da un elevato
scoperto sui conti correnti bancari. Avevano ricevuto un’offerta
di circa 600 milioni (oggi, a distanza di otto anni, il capannone
viene offerto, con il secondo esperimento d’asta, a lire
383.541.600). Bruno Gianoncelli si rifiutò, così come,
peraltro, si rifiutò di consentire la contrazione di un mutuo
con garanzia ipotecaria sugli immobili indivisi e, da quel momento,
mise la società in ginocchio, trascinandola inesorabilmente
verso il baratro del fallimento. Il 15 febbraio 1993,
invocando la giusta causa, comunicò di voler recedere dalla
Società. I soci Franco e Peppino, negando la giusta causa, lo
invitarono a formulare il recesso a norma di statuto (preavviso di
mesi sei) e a ripianare la propria quota di debiti. Il 24 febbraio
1993 (si faccia molta attenzione a questa data per quanto si
dirà in seguito), Bruno Gianoncelli dichiarò di
voler recedere, con decorrenza 1° settembre 1993, a norma
di statuto. Fino al mese di maggio 1993 continuò a
lavorare nella società e a percepire il compenso di
amministratore, regolarmente dichiarato ai fini fiscali. Il 9
giugno 1993, a mezzo dell’avv. Giancarlo Giugni,
comunicava che avrebbe interrotto il preavviso e rinunciato al
recesso statutario del 24 febbraio 1993 per chiedere nuovamente il
recesso per giusta causa.
Nel luglio 1993 invitò i
soci Franco e Peppino, a mezzo dell’avv. Giugni, a nominare un
arbitro per la costituzione di un collegio finalizzato ad accertare
la sussistenza della giusta causa per poter recedere. Il 9 agosto
1993, senza attendere che venisse costituito il collegio
arbitrale, Bruno promosse causa civile con la quale chiedeva al
Tribunale di accertare la giusta causa ai fini del recesso. Nel mese
di novembre 1993 si insediava un collegio arbitrale composto
dal dott. Enrico Tarabini, per il socio Bruno, dalla dott.ssa
Vanna Mottarelli per i soci Franco e Peppino e dal dott. Marco
Vitali. Il collegio arbitrale non pronunciò il lodo,
stante il giudizio per giusta causa, promosso da Bruno Gianoncelli
avanti il Tribunale di Sondrio.
Il 4 dicembre 1995, data
prevista per il giuramento del CTU (perito del Tribunale, Ndr),
Bruno Gianoncelli non si presentò all’udienza e la causa
venne sospesa. Nel mese di agosto 1996, ovvero un mese dopo
l’avvenuta cancellazione dai pubblici registri, partecipò,
con il figlio Luciano a una riunione nei locali del Credito
Valtellinese, con funzionari del Credito Valtellinese, funzionari
della Banca Popolare, i soci Franco e Peppino (rappresentato dalla
moglie) Gianoncelli e con i dottori commercialisti Enrico Tarabini e
Vanna Mottarelli. Nessuno dei presenti, nemmeno il suo
commercialista, era al corrente dell’avvenuta cancellazione dal
registro imprese, tanto che in quella sede si cercarono nuovamente
intese per quantificare la regolarizzazione monetaria del recesso.
Bruno si guardò bene dall’informare i presenti circa la
sua dichiarazione del 22 luglio 1996. Nel contempo continuava ad
avere delega sui conti correnti della Società, tanto che la
Banca Popolare e il Credito Valtellinese, nel mese di novembre 1996,
allorché chiusero il conto corrente, lo invitarono, al pari
degli altri soci, a ripianare i debiti bancari.
Dopo aver
minacciato a destra e a manca di far fallire i fratelli, in data 30
dicembre 1996, dando corpo alle sue intenzioni, chiedeva al
Tribunale, da socio, che venisse dichiarato il fallimento
della Società e dei soci Franco e Peppino. Il 15 gennaio
1997 riassumeva avanti il Tribunale di Sondrio, il procedimento
per giusta causa interrotto nel 1995. Nel mese di aprile del 1997,
qualificandosi come socio, chiedeva e otteneva dall’avv.
Bianchi Wanda Paganetti atto di precetto, sollevato nei
confronti della società dall’ex dipendente Alberto
Miotti, atto che esibì all’udienza di discussione
della domanda di fallimento da egli presentata. Con la dichiarazione
unilaterale di recesso, Bruno Gianoncelli diede pubblicità
(udite, udite!) al recesso del 24 febbraio 1993, ovvero
a quel recesso che egli stesso ha revocato con raccomandata, a firma
dell’avv. Giugni, in data 9 luglio, per intentare azione
giudiziaria mirante ad accertare la giusta causa.
La causa assunta
in data 4 agosto 1993 presso il Tribunale di Sondrio e la
relativa riassunzione in data 15 gennaio 1997 (sei mesi
dopo l’illegittima cancellazione dai registri della Camera di
commercio) sono, di per sé, prove sufficienti a dimostrare che
Bruno Gianoncelli non poteva dare pubblicità a un recesso
statutario da egli revocato da oltre tre anni. I fratelli Franco e
Peppino, nella causa di opposizione al fallimento proposta da Bruno
Gianoncelli, riunita con la causa di opposizione al loro fallimento
hanno chiesto l’ammissione di prove documentali e testimoniali
per poter dimostrare che il socio Bruno è sempre rimasto tale
e per far accertare che la cancellazione effettuata per equivoco (la
semplice autentica di firma è stata scambiata per atto
notarile) dalla Camera di commercio di Sondrio è nulla a tutti
gli effetti.
La ciliegina sulla torta per Bruno arrivò con
una sentenza, con la quale la Corte Costituzionale affermava che il
socio receduto non può essere dichiarato fallito passato un
anno dal recesso. Da quel momento il protezionismo nei confronti di
Bruno Gianoncelli si è decuplicato. Giravano voci di corridoio
tra cui quelle di componenti del comitato dei creditori che davano
per certo che il fallimento del socio Bruno Gianoncelli, in sede di
giudizio di opposizione, sarebbe stato revocato.
I soci Franco e
Peppino Gianoncelli, attraverso il Comitato territoriale di
Democrazia e Legalità "Insieme per la giustizia",
lanciano un grido di allarme. Possibile che il Giudice precluda la
possibilità di ammettere simili inconfutabili prove atte a
dimostrare che Bruno Gianoncelli è sempre stato socio?
Possibile che una dichiarazione con firma autenticata dal notaio, mai
notificata, possa venire equiparata a un atto notarile?
Molti
tribunali disattesero la sentenza della Corte Costituzionale,
ritenendola iniqua, tanto che, fortunatamente, di recente la
Corte Costituzionale è nuovamente intervenuta per chiarire la
prima sentenza, precisando, a proposito dei soci delle società
di persone che l’anno decorre da quando, per qualsiasi ragione,
il socio abbia perso la responsabilità solidale e
illimitata, a nulla rilevando, pertanto, la cancellazione dai
pubblici registri. Ciò significa che per il socio Bruno
Gianoncelli, che -si ribadisce- è sempre stato socio, è
in ogni caso irrilevante il decorso del tempo, in quanto è
pacifico che lo stesso non abbia mai perso la responsabilità
solidale e illimitata, essendo la quasi totalità
dei debiti insinuati nel passivo del fallimento stati contratti da
tutti e tre i soci. Tali debiti, infatti, risalgono prevalentemente
al 1995 e, per quanto riguarda quelli nei confronti delle banche,
addirittura al 1992 (nel febbraio 1993 i debiti verso le banche erano
notevolmente più alti di quelli esistenti al 3 dicembre 1997,
data del fallimento).
È impensabile che sia sufficiente un
"lampo di genio" per esautorare un socio di una società
di persone dal pagamento delle obbligazioni sociali, così come
è incostituzionale che i debiti contratti da tre soci debbano
essere posti a carico di due soli soci o, quel che è peggio,
che si ripeta la situazione del dicembre 1997, allorché
solamente i soci Franco e Peppino Gianoncelli erano stati dichiarati
falliti (su questo argomento ritorneremo in un prossimo numero del
Gazetin).
Abbiamo fondate ragioni di ritenere che una
siffatta cancellazione dai registri camerali sia e rimarrà
unica negli annali di storia delle Camere di commercio di tutta
Italia. Ci auguriamo che l’appello della nostra Associazione
possa stimolare indagini circa i fatti che qui abbiamo segnalato. Il
Tribunale è parte primaria nella procedura fallimentare, in
quanto ha l’obbligo di agire d’ufficio, prescindendo da
questa o quella istanza o da questa o quell’opposizione. La
Cassazione, tra l’altro, in più sentenze ha precisato
che anche il Procuratore Generale della Repubblica può
decidere d’ufficio di costituirsi in cause inerenti opposizioni
ai fallimenti.
Ci auguriamo che il presente scritto possa servire
a mettere a nudo aspetti che fossero sfuggiti nei meandri del
Tribunale di Sondrio e che si eviti di adottare, per l’ennesima
volta, due pesi e due misure per i soci Franco e Peppino Gianoncelli,
da un lato, e per Bruno Gianoncelli, dall’altro. Continueremo a
vigilare affinché cessino le ingiustizie qui lamentate, siano
pure esse state determinate da un mancato approfondimento del
problema o da un modo troppo superficiale di affrontare simili
delicate vicende.
(da 'l Gazetin, OTTOBRE 2000)
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