tellusfolio
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Chiavenna
Valtellina Bormio
editoriale
Una
terra senza Novecento
Novecento? Macché Novecento! La
Valtellina ha conosciuto soltanto tre epoche nel corso dell’ultimo
millennio. La prima va dall’annessione ai Grigioni del 1512 al
Sacro Macello del 1620, questo è l’età classica
della Valtellina, il siglo de oro - prima di questo periodo la
Valtellina è pressoché nulla, un mondo senza scrittura,
senza diritto e quindi senza storia; la seconda si snoda attraverso
quattro secoli e mezzo di feroce decadenza, a partire dalla peste del
1630 fino a alla fine dell’ultima guerra; e infine la
contemporaneità. Gli anni novanta di questo secolo
appartengono in effetti già al XXI secolo. Se quest’ultimo
tratto d’epoca sia a sua volta qualcosa di più di un
intermezzo buio lo giudicheranno i posteri, ma una cosa è
certa, un Novecento, nel senso usuale del termine, da noi non esiste
– Bertacchi è un autore dell’Ottocento. Due guerre
mondiali hanno disossato questa provincia in modo sistematico e
meticoloso senza produrre una frase cruciale. Nel XVIII secolo vi
sono stati almeno dei momenti dal respiro più profondo,
perfino l’esangue secolo XIX mostra qualche segno di maggior
vitalità, anche se nel complesso niente fa pensare che la
Valtellina, dopo il 1620, abbia pensato se stessa come qualcosa di
più di un appendice (del mondo grigionese, della Francia
napoleonica, dell’Impero austro-ungarico e, infine, del Regno
d’Italia), lo dimostrano, per antitesi, proprio i Francesco
Quadrio e i Francesco Visconti Venosta con i loro appelli, le loro
storie, le loro notizie statistiche. Certo, c’è molta
cultura materiale nel nostro Novecento, ma è roba buona per
gli etnologi, un bel salto nel medioevo. La storia di una comunità,
la storia interna, ciò che una comunità racconta di sé
in quanto ha raggiunto quel minimo di consapevolezza che le serve per
sapersi tanto oggetto quanto soggetto di questo racconto, la storia
soggettiva, per la quale è necessario uno sguardo riflessivo,
questa storia comincia solo nei nostri anni ’90: Tellus,
La Provincia settimanale, L’Officina del libro, Quaderni
Valtellinesi, il romanzo di Bussoli, tutte cose del prossimo secolo,
d’accordo, ma insieme prime avvisaglie di una storia
soggettiva. Se la storia oggettiva è quella che
ingrassa gli etnologi, la storia raccontata dagli altri, dai
professori, da quelli che ti classificano, che ti grigliano come un
Ottentotto, dai sociologi, la storia soggettiva è
invece il tipo di comprensione che una comunità ha di sé
attraverso le sue scritture (se gli ebrei ci avessero lasciato una
splendida civiltà materiale invece di un libro che sarebbe
l’Europa oggi?).
Il Novecento valtellinese non ha scritture.
Il nostro Novecento è un’epoca depressionaria.
Basterebbe confrontarlo con l’età della Riforma, che so,
con lo straordinario fatto della tipografia dei fratelli Landolfi di
Poschiavo, dove furono stampati non solo gli Statuti della Valtellina
del 1549 ricordati da Benetti, ma anche gli scritti di Giulio da
Milano, di Pier Paolo Vergerio e di molti altri "spiriti liberi"
del Cinquecento per rendersi conto che il Novecento valtellinese è
in realtà un’epoca buia, regressiva.
Ciò che
con il Novecento finisce è esattamente l’età
di mezzo. Ecco la sua importanza! La sua importanza consiste nel
fatto che con lui forse vedremo riempirsi anche quell’abisso
che ci separa dal nostro siglo de oro. Non si tratta
ovviamente di ritornare al XVI secolo, ma di imparare da lui.
L’interpretazione della libertà retica del XVI secolo,
sia pur essa una "maledetta libertà", è a
parer nostro la chiave per scoprire se abbiamo o no qualche chance
di divenire una comunità autonoma, capace cioè di
legiferare in proprio, oppure no.
novembre 1999
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