Claudio Di Scalzo, Vecchiano, un paese. Lettere a Antonio Tabucchi, Feltrinelli 1997, pagg. 94, L. 24.000
Per Nico Orengo (Tuttolibri
n. 1085 del 20 novembre 1997) Di Scalzo è un eteronimo di
Tabucchi. Secondo lui, cioè, Tabucchi, sempre omaggiando il
maestro Pessoa, si sarebbe nascosto dietro il nome Di Scalzo per
parlare del suo paese, Vecchiano (PI), attraverso lettere spedite a
se stesso e commenti a vecchie fotografie, alcune solo descritte
senza essere mostrate. Ne è venuto fuori un affresco degli
anni '70-'80 in cui, tolto il particulare che però è
la polpa del libro, si rispecchia non solo il microcosmo di Vecchiano
ma l'Italia tutta.
È un come eravamo
relativamente recente ma ormai già lontano anni-luce, travolto
dal turbinoso cambiamento che ancora non accenna a quietarsi e che,
giorno dopo giorno, disintegra identità che, però,
oppongono ogni resistenza possibile.
Questo
libro è appunto una forma di resistenza, è un percorso
a ritroso alla ricerca delle proprie radici, è un'ancora
gettata per rendere meno squassanti le raffiche di vento infuocato
che devasta tutto quanto trova sul suo passaggio.
E
mette un po' i brividi pensare che anche la foto delle Alpi
valtellinesi descritta a pag. 88 potrebbe, a breve, essere pura
testimonianza.
Le Alpi valtellinesi, ma che
c'entrano con Vecchiano?
È che Di Scalzo,
vecchianese come Tabucchi, oggi vive qui e abita la Valchiavenna e la
Valtellina. È che Di Scalzo ha scritto questo libro, credo,
per portare in Valtellina la sua storia ed averla a portata di mano,
lì sul comodino.
«È un bel
libro» scrive Orengo. L'ha scritto Di Scalzo, pare l'abbia
scritto Tabucchi.
Proprio un bel servizio. E il
baffo, inorgoglito, freme, vero vecchio Disca?
dottor Pereira
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Fabrizio Caltagirone, Contadini e allevatori in Valtellina, l'officina del libro 1997, pagg. 176, L. 40.000
Informatori (non della polizia!)...
così si chiamano i cittadini che collaborano con gli etno-
antropologi per dare loro quelle informazioni, quei sapèri,
quelle storie, che servono loro per fare bene il mestiere. Grazie,
innanzitutto, al "compagno" Gemmi che mi ha regalato il
libro di Fabrizio dicendomi: «Ormai sei famoso, te lo meriti!»
Invece Fabrizio è il professor Caltagirone col quale ho
trascorso circa una settimana sull'alpe Verva durante un programma di
sviluppo regionale col quale si intendeva insegnare ai casari di
quelle località, sino ad allora escluse dalla zona classica di
produzione del Bitto, a produrre il tipico formaggio delle Valli del
Bitto. Non so perché il professore abbia scelto me quale...
cavia; forse perché, oltre alla barba da muntagnùn,
bestemmiavo anche un po' o, più probabilmente, perché
allora ero ancora un casaro alla moda vecchia, e quindi un ottimo
informatore. Io ho sempre creduto che, per il cognome che
porta, fosse un terruncello; invece durante la presentazione
del suo libro alla 7ª Fiera Regionale dei Prodotti della
Montagna Lombarda, svoltasi l'ottobre scorso al Polo Fieristico di
Morbegno, mi ha pubblicamente sputtanato dicendo che lui è
nato a Sondrio. Il fatto di aver poi scoperto, durante quella
settimana verde, che era il moroso della Fides mi aveva riempito il
cuore di gioia; perché vedere una coppia di "stranieri"
(un bianco e una africana) che si interessano così a fondo, e
così professionalmente, del nostro territorio e del nostro
lavoro, che si appassionano, anche, al passato bucolico della nostra
cultura, mi aveva dato (e mi dà) una notevole carica di
entusiasmo.
Il curatore di un museo del
Trentino, durante un convegno tenuto a Sondrio qualche luna fa, mi
aveva impressionato quando aveva affermato che nel momento in cui un
oggetto diventa da museo, significa che la sua storia è
finita, sostanzialmente. E anche noi che, magari in gioventù
abbiamo usato quell'attrezzo, ci sentiamo un poco (molto) fuori dalla
storia! Così come, alle volte, i reduci di Russia ricordano
con nostalgìa, quasi con gioia, le sofferenze passate e le
loro tristi vicende, noi (io di sicuro) ci immedesimiamo nelle
fotografie di Scheuermeier dei primi del Novecento, dimenticando le
carestie, la fame e le malattie che sui popoli di allora si
abbattevano. Chissà chi proverà gli stessi sentimenti
vedendo, fra cinquanta-settant'anni, le foto del nostro informatore a
pagina 87-88? Devo confessarvi che ho avuto difficoltà a
leggere il libro, proprio non riuscivo ad andare avanti; chissà
perché, poi!
La (mia) morale della
storia. Chissà chi è più felice: i personaggi
che compaiono sulle bellissime fotografie del libro, chi le ha
scattate, il prof. Fabrizio Caltagirone o i suoi informatori?
P.S.
Quando antropologi, etnologi e
museologi prendono in considerazione periodi della storia per
studiarli, per analizzarli, per... archiviarli, oramai è
troppo tardi per i protagonisti che hanno attraversato quel periodo
storico! Ciò che questi professionisti ci potrebbero lasciare
quale insegnamento, quale frutto del loro lavoro, è quello di
farci capire ciò che dobbiamo tenere in considerazione per
andare avanti e ciò che dobbiamo scartare perché non
serve più. La cultura attuale, l'economia, il mercato scartano
pressoché tutto del passato; le genti che hanno percorso
quella storia ne hanno invece molta nostalgia. I colleghi di
Fabrizio, e lui stesso, in fondo vogliono dirci che occorre, di quel
passato, setacciare quello che è ancora adattabile
darwinianamente al presente: non solo all'economia e al mercato, ma
anche ad un certo modo di intendere la cultura di persone, cose ed
animali che sono stati Storia. Una sorta di continuità senza
la quale il futuro è in salita o un salto nel buio. L'essere e
l'avere del tempo che fu, opposto al fare quotidiano.
'l Marendin
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