L'Arca etiope

Nell'attuale fioritura di narrativa e saggistica avente come oggetto e/o cornice l'antico Egitto, condita di immancabili e frequenti strizzatine d'occhio alle tematiche ermetiche, occultistiche e misteriosofiche tanto di moda, il nome di G. Hancock, giornalista e scrittore scozzese, è ormai noto pure in Italia, assieme a quelli di J. A. West, A. Gilbert e R. Bauval, grazie alle pubblicazioni della casa editrice Corbaccio. Non avendo ancora adeguata conoscenza delle opere del filone "egiziano", astrale ed iniziatico, di Hancock, preferisco non pronunciarmi per il momento, anche se gli zodiaci che compaiono in Egitto migliaia d'anni prima di Cristo li vede solo lui (il più antico zodiaco egizio a noi noto, quello di Denderah, risale all'epoca dei Tolomei ed è di chiara derivazione babilonese); anche se il titolo Impronte degli dei fa venire in mente le incontrollate fantasie di E. von Däniken, propenso a vedere extraterrestri in ogni graffito preistorico; anche se l'elogio tessuto da Hancock di un testo farneticante come Il segreto di Sirio di M. Hope è un gran brutto segno.
   Un libro di Hancock che merita senz'altro la lettura è questo che presento. Il tema è fascinoso e gode di una bibliografia ormai imponente (come sintesi e ricognizione si può consultare Atlante del Graal di G. Ferrari e M. Zatterin, ed. Il Minotauro), ed in questa la posizione di Hancock, per nulla riconducibile alle consuete suggestioni celtico-arturiane, si distingue per arditezza. Ma, aldilà della comunque documentata tesi di fondo, che è quella dell'identità tra il Graal e la biblica Arca dell'Alleanza, a rendere interessante la decennale fatica dell'autore è lo sviluppo di alcune tematiche storiche ed antropologiche riguardanti l'Etiopia, un mondo remoto che non figura mai nei manuali di storia medioevale ad uso degli studenti. E invece l'Etiopia, regno secondo Hancock del leggendario Prete Gianni dei romanzi arturiani, avrebbe svolto un ruolo di primo piano nella vicenda dei Templari, fin dalla loro fondazione istituzionale ad opera di S. Bernardo, non solo, ma avrebbe costituito punto di riferimento anche per le sette che ne hanno raccolto l'eredità, come il portoghese Ordine di Cristo e la Massoneria scozzese. Dalle molte pagine del libro emerge il morboso, anche se ben dissimulato, interesse di queste conventicole ultrasegrete per il lontano acrocoro abissino. Ma perché? Perché, l'autore non nutre dubbi, l'Arca, scopo reale delle ricerche dei Templari, referente autentico del Graal di Wolfram, che era una pietra e non un calice, è finita laggiù.
   Purtroppo lo spazio tiranno non permette di dipanare ulteriormente l'intricata matassa di relazioni intessuta dall'autore di questo libro «più intrigante del film» (Guardian); comunque, aldilà della maggiore o minore adesione alla tesi di fondo, il lettore troverà che le pagine sull'arcaico ebraismo del falasha e sui sanguinosi conflitti secolari tra le tre grandi religioni monoteiste in quel mondo lontano valgono da sole la lettura del libro.

s. r.


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