CRONACA GIUDIZIARIA. ENNESIMA
INCONSISTENTE ACCUSA PER CODAZZI
Un processo che non si sarebbe nemmeno
dovuto fare
di ENEA SANSI
Di Luciano Codazzi questo giornale si è occupato a più riprese raccontando (spesso a diretta cura dell'interessato) e documentando le assurde (anche per il loro incredibile numero) vicende giudiziarie in cui si è trovato coinvolto, tanto da indurre anche il più disincantato osservatore a prendere seriamente in considerazione l'ipotesi dell'accanimento nei suoi confronti. Non si sottrae a questa logica nemmeno l'ultimo episodio, che l'ha costretto a doversi difendere dall'accusa, pensate un po', di omessa custodia (art. 20, 1° e 2° comma, legge n. 110/1975) di un vecchio fucile da caccia, marca Beretta. L'ultima udienza del processo, celebratosi presso la sezione staccata di Morbegno del Tribunale di Sondrio, si è conclusa - e poteva essere diversamente? - con la piena assoluzione di Codazzi («per non aver commesso il fatt»).
- Ma, allora, dove sta il problema? - direte voi.
Il problema, e ciò si è reso subito evidente anche per il
pubblico che ha assistito al dibattimento, tanto che è stato uno
dei non frequentissimi casi in cui tutti hanno potuto prevedere
l'esito finale prima ancora che il Giudice si ritirasse in camera
di consiglio per stendere la decisione, è che il procedimento si
sarebbe dovuto concludere senza nemmeno arrivare alla
celebrazione del processo. Già in istruttoria, dalle indagini
preliminari condotte dalla Procura, infatti, era emersa
chiaramente la completa estraneità di Luciano Codazzi alla
vicenda del fucile, la cui esistenza risultava dall'apposito
registro tenuto dal Comando dei Carabinieri di Ardenno (su una
denuncia di detenzione effettuata negli anni '50) e la cui
distruzione era stata riferita nella testimonianza scritta resa
da Piero Melazzini (sì, il noto presidente della Banca
Popolare di Sondrio, che è cugino di Codazzi) e dallo stesso
letta pari pari nell'udienza dibattimentale del 21 febbraio
scorso.
Perché allora la Procura della Repubblica ha voluto egualmente
sostenere l'accusa nel processo, fino all'arringa finale del PM
che, pur se ritualmente c'è parso di capire, ancora chiedeva la
condanna dell'imputato? Perché ha chiesto, ottenendolo dal GIP Pietro
Della Pona, il decreto penale di condanna (lire 270.000 di
ammenda) contestando anche la recidiva? (a proposito della quale
Codazzi afferma lapidario: «Si tratta di falsi reati, come
questo appunto, che non mi erano stati nemmeno notiziati e dei
quali ho già chiesto le revisione nella sede competente»).
Spendendo inutilmente soldi del contribuente (un teste,
Carabiniere all'epoca in servizio presso la Stazione di Ardenno,
è stato fatto venire da Roma); facendo girare a pieno regime una
macchina della giustizia che già ha tanto lavoro arretrato e
problemi molto seri di cui occuparsi; procurando inutilmente
stress e tensione a una persona già provata proprio perché
malauguratamente già finita in tali orripilanti ingranaggi. Per
allestire un processo come questo, dall'esito scontato?
Sono domande che vanno ad affiancarsi alle già tante altre rimaste senza risposta nelle incredibili, se non fossero tutte puntualmente e documentalmente vere, storie che hanno avuto per protagonista il "povero" Luciano Codazzi. Qualcuno, dal Tribunale o da dov'altro non sapremmo dire, vorrà prima o poi cominciare a dare qualche ragionevole risposta? E, signori, tutti i danni procurati, vieppiù evidenti, a chi mai andranno ascritti?
[DIDA ILLUSTRAZIONE:]
- l' immagini riportata nell'edizione cartacea viene omesse
per non appesantire la pagina web -
Luciano Codazzi. Ha dovuto difendersi da una nuova inconsistente accusa. Per la storia di un vecchio fucile da caccia, che veniva tenuto nella camera di sua zia Teresa, madre di Piero Melazzini, nella vecchia casa di famiglia in Buglio in Monte
(da 'l Gazetin, MARZO 2002 )
Torna all'indice CASO CODAZZI o alla Home Page Gazetin