Pensieri inutili
di GINO SONGINIMetter su casa e famiglia…
È poi così semplice, anche nella ricca Lombardia?
Si dice: Lombardia ricca. E anche noi diciamo: Lombardia ricca. Ma in che cosa si traduce questa ricchezza? Nelle strade intasate di traffico? Nelle scintillanti vetrine dei centri urbani? Nella moda sempre più costosa e pacchiana? Certo, i forzieri delle banche lombarde traboccano di depositi. La produzione industriale, crisi o non crisi, è sempre al vertice delle classifiche regionali italiane. Un grandissimo numero di Lombardi si reca ogni giorno in vacanza nei più lontani angoli del pianeta. I milionari in euro sono numerosi in ogni provincia. Parrebbe il paese di Bengodi, dunque. Eppure di fronte allo sfarzo esibito di una società che ha nel denaro il suo primo punto di riferimento esistono (e come se esistono) anche nella nostra regione tanti problemi economici e sociali che allungano un’ombra nera sulla scintillante superficie delle apparenze. Precarietà del lavoro, cassa integrazione, licenziamenti. Difficoltà da parte dei giovani di trovare un’occupazione adeguata, di mettere su casa, di formarsi una famiglia. Da dove vogliamo cominciare?
Ecco, proviamo a ragionare un momento proprio sull’ultimo punto. Mi rendo conto che l’espressione “formarsi una famiglia” suona ormai un poco fuori dal tempo, anche perché pare che ai giorni nostri siano più numerose le famiglie che si disfano di quelle che si formano ma, battute a parte, proviamo a metterci nei panni di un ragazzo o di una ragazza che intendano appunto darsi da fare per raggiungere questo scopo. La casa, intanto. Se uno (o una) non è ricco di suo dove può andare a sbattere? Quanto costa un sia pur modesto appartamento in uno dei nostri paesi o, Dio ce ne guardi, in una delle nostre città? Quanto costa l’affitto? Ognuno si dia una risposta. Ma è evidente che senza un lavoro sicuro e adeguatamente retribuito non ci si possono neppure porre le domande di cui sopra. Il lavoro. Un lavoro sicuro e adeguatamente retribuito. Chi mi sa dire dove lo si può trovare, nella ricchissima Lombardia, batta un colpo. Perché personalmente non faccio che incontrare giovani dall’occupazione precaria, con retribuzione inadeguata, con prospettive sempre più grigie e incerte. E spesso, al di là dei luoghi comuni, si tratta di giovani capaci e volenterosi, con un titolo di studio o una preparazione professionale più che dignitosi.
Sociologi, religiosi, psicologi e opinionisti vari hanno voglia a discutere di crisi dei valori, di ideali che non ci sono, di modelli sbagliati, di problemi di relazione nella vita di coppia, ecc., ecc., ma è evidente che se mancano i pre-requisiti essenziali, vale a dire casa e lavoro, non si fa altro che produrre un passeraio di chiacchiere che non porta da nessuna parte. Certo, nessuno nega che nella nostra società e segnatamente tra i giovani, ci sia una crisi di valori o una carenza di ideali, nessuno nega che i modelli proposti dall’alto (e dal basso) siano spesso modelli negativi, ma questi non sono problemi esclusivi dei nostri tempi. Anche nella società del passato non mancavano esempi di conformismo, di doppiezza, di ipocrisia. Allora, prima di scagliare la pietra della condanna cerchiamo di fare qualcosa di concreto per i nostri ragazzi.
Negli anni del dopoguerra eravamo certamente più poveri. Gli uomini dei nostri paesi, spesso con famiglie numerose a carico, lavoravano nella stragrande maggioranza come manovali o contadini. Oppure emigravano. La bella mostra fotografica “Il lungo addio” tenutasi nelle scorse settimane a Sondrio, a Palazzo Muzio, e riguardante appunto l’emigrazione in Svizzera negli anni Cinquanta-Sessanta è servita a restituirci l’atmosfera di anni ormai lontani eppure ancora vivi nella memoria di chi non è più giovane. Immagini di partenze dolorose, di emigranti con la classica valigia di cartone, di volti desolati nelle stazioni, di lavoratori italiani nei cantieri svizzeri, di momenti di svago o di riposo nell’intermezzo di tante fatiche, ecc. Eppure proprio in quegli anni così difficili i giovani trovavano modo di mettere su casa e di formarsi una famiglia più facilmente dei giovani d’oggi. Sono dati di fatto sui quali varrebbe la pena fare qualche riflessione.
Da parte loro i nostri governanti parlano di tanto in tanto di una nuova politica per la famiglia intesa a favorire le giovani coppie e a contrastare il calo demografico. Verrebbe da dire: ciarlano, cicalano, ciangottano. Ovvero: molto fumo e poco arrosto. Perché la situazione, da questo punto di vista, non fa che peggiorare. Nei nostri paesi, per dirne una, non si era mai visto un così elevato numero di singles. Ragazze e ragazzi invecchiano allegramente senza nessuna intenzione, o meglio, senza nessuna possibilità di formarsi una famiglia. Del resto, santo cielo, come può un giovane pensare di sposarsi e avere dei figli se, ormai intorno ai trent’anni non trova di meglio (quando trova) che iscriversi all’ennesimo corso di formazione o occuparsi come collaboratore coordinato continuativo? (i famosi “co.co.co.” che per fortuna pare stiano andando in pensione). Nel caso poi di passaggio a nuove tipologie contrattuali si riscontra spesso un peggioramento delle condizioni lavorative. Contratti part time, contratti a termine (anche di soli quindici giorni!), contratti interinali, contratti di somministrazione. Tante parole per mascherare una situazione di precarietà e di disagio che sembra non finire mai. Chi scrive non è certamente un esperto del settore, ma gli bastano orecchi per intendere e occhi per vedere. E vede per l’appunto una società indifferente ai problemi dei giovani, una società nella quale sfruttamento parassitario e speculazione finanziaria dettano legge alle politiche regionali e nazionali. Vede fabbriche moderne e produttive che dall’oggi al domani chiudono bottega per trasferirsi chissà dove, dalla Polonia alla Romania, con tanti saluti ai lavoratori giovani e meno giovani rimasti a casa a contare le stelle. Vede tanti giovani di ogni regione d’Italia, compresa la ricca Lombardia, che non si fanno molte illusioni per il futuro. La società non può rimanere indifferente a queste cose. Parlamento, Governo, Sindacato e Regioni devono tornare a mettere al primo punto del loro programma la questione del lavoro.
È vero che flessibilità, regolamentazione del lavoro atipico, contratti di inserimento, ecc., possono costituire per i ragazzi in cerca di occupazione un punto di riferimento o un’opportunità, ma non basta. Ci vuole un quadro di certezze che oggi manca totalmente. Bisogna programmare una politica per la famiglia adeguata ai nostri tempi. Diversamente costruiremo una società fondata sulla precarietà e sul disordine. Ritengo di poter dire che tra i tanti errori commessi dall’umanità nella sua storia, la costruzione e la costituzione della famiglia è stata la grande nota positiva di ogni tempo e di ogni luogo. Sì, la famiglia è da sempre la cellula viva della società, il fulcro primigenio della formazione, il punto di riferimento dell’uomo nel suo cammino sulla terra. Vogliamo distruggerla definitivamente? Se continuiamo di questo passo la catastrofe è sicura. Avremo una società sempre più disunita e disgregata, travolta dalle sue meschinità e dal suo egoismo, con dei giovani che invecchiano senza poter maturare la loro personalità e senza poter esprimere le proprie capacità. Certo, in una Lombardia e in una Valtellina con un tasso di disoccupazione mai così basso, sembrano discorsi scombinati e anche un po’ fuori luogo. Ma, lo ripeto, basta guardarsi attorno. Magari potremo renderci conto che dietro le cifre di una (quasi) piena occupazione si nasconde una realtà niente affatto rosea. I nostri giovani devono avere un lavoro, devono avere una casa, devono potersi formare una famiglia: hanno insomma diritto a un futuro migliore.
Allora, che fare? Giro la sempiterna domanda a coloro che, ai diversi livelli, hanno responsabilità di governo e insieme a voi, amici lettori, attendo da loro (campa cavallo…) un’adeguata risposta. Intanto, prima di rispondere, potrebbero tornare a riflettere sulle prime parole della Costituzione italiana: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».
[DIDASCALIA DELL'ILLUSTRAZIONE (che viene omessa nella versione on line)]:
Domenico Amato, Grande promessa o Matrimonio contadino – cm 100x80, pitto-scultura su pannello
(da 'l Gazetin, MARZO 2005)
Torna/vai alla Home Page Gazetin