Pagine di diario

Fídes minga

 di Attilio Pandini

 4 dicembre 2003 – Anche nel sogno di stanotte stavo facendo un nuovo giornale nazionale, un rotocalco. Anche stanotte lo facevo nella mia vecchia casa chiavennasca di via Cappuccini, e anche stanotte quella casa mi sembrava la sede giusta, naturale, per una simile attività. Forse perché misi insieme il mio primo giornale proprio a Chiavenna in via Cappuccini, da ragazzo, due o tre anni dopo la liberazione; e fu un giornale murale, un tazebao compilato con due macchine per scrivere, una coi caratteri tondi e l’altra corsivi. Quasi venti anni dopo lanciavo sul rotocalco milanese ABC, in appoggio all’amico Loris Fortuna, la campagna per il divorzio, e sull’onda di quello e di altri buoni colpi l’ABC superò la tiratura di 400mila copie settimanali. Il giorno dell’uscita del giornale andavo in piazza del Duomo per vedere rapidamente fondersi, davanti alle edicole, le pile del giornale. Ma la sensazione forte, direi di euforia, che mi pervadeva sotto i portici del Duomo, non era così piena e intensa come quella che vent’anni prima avevo provato a Chiavenna, mentre defilato nell’ombra di un portico a due passi da piazza Dogana osservavo la gente accalcarsi davanti al mio giornale murale, scambiando pareri e battute polemiche.

Si usa dire che la prima volta non si scorda mai: e io col tazebao di Chiavenna avevo gustato per la prima volta il frutto inebriante della libertà di scrivere, di comunicare agli altri idee e opinioni. Quel tazebao restò un numero unico. Il sindaco dc del tempo mi convocò in comune per dirmi che, secondo la legge, avrei dovuto sottoporre a lui le successive edizioni del giornale. «Ma è una legge fascista – cercai di obiettare – la nostra nuova costituzione sancisce la libertà di stampa, sul giornale figura il mio nome come responsabile, se qualcuno si sente offeso può querelarmi». «Questa è la legge vigente – ribatté duro il sindaco – e intendo che sia rispettata: prima di affiggere un altro murale, lei deve sottoporlo alla mia approvazione». Fine del colloquio e fine dei tazebao. (Guarda caso, in quel giornale avevo criticato l’amministrazione dc di Chiavenna).

Vent’anni dopo, quando a Milano lanciai su ABC la campagna per il divorzio, invece del sindaco intervennero le procure della repubblica ordinando il sequestro del giornale. Procuratori di piccoli tribunali dell’Italia centro-meridionale trovarono improvvisamente scandalose, proprio e soltanto a partire da quel momento, le foto di ragazze in costume che da sempre  pubblicavamo sulle nostre copertine (le più audaci addirittura con il «due pezzi») e quindi arrivarono a raffica le ordinanze di sequestro della rivista «per offesa al comune senso del pudore». (Altri rotocalchi mettevano in bella mostra foto molto più osées delle nostre: ma non si interessavano del divorzio, quindi non furono sequestrati). Dove si vede come in Italia la cattiva pianta dell’arma giudiziaria abbia radici antiche, e come siano difficili da svellere.

Dieci numeri, dieci sequestri, dieci processi per direttissima, e infine dieci assoluzioni. A quel punto le segreterie dei quattro partiti laici di governo (socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali) fecero presentare dai loro deputati più autorevoli (fra loro c’era anche il compianto amico valtellinese Franco Zappa, in quegli anni presidente della commissione giustizia della Camera) una interrogazione urgente al governo, nella quale chiedevano con forza che la persecuzione giudiziaria contro il nostro giornale cessasse, come infatti avvenne. E noi chiedemmo allora inutilmente, come adesso altri inutilmente chiedono, che i procuratori rifondessero i gravi danni arrecati. Campa cavallo. Sulla soglia del vecchio palazzo di giustizia di Sondrio c’era (e c’è ancora) un mosaico con al centro la parola Fides, che in latino significa fede e anche fiducia. Proprio in questo senso la interpretavano quei montanari convocati dalla giustizia per renderle conto di qualche bricolla, negli anni in cui il contrabbando era ancora fra i principali mezzi di sussistenza nell’economia depressa di alcune nostre valli. Entrando nel palazzo leggevano la parola del mosaico e commentavano scuotendo la testa: «Fídes? Fídes minga!».

(da 'l Gazetin, GENNAIO 2004)


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