Argomenti di BENEDETTO DELLA VEDOVA

Il no alla guerra non porta necessariamente alla pace

L’esempio vietnamita e il dramma della politica europea

Il popolo della pace, quello delle bandiere arcobaleno alle finestre, si muove spinto da sentimenti genuini. Certo, le manifestazioni imponenti beneficiano del battage mediatico di organi di informazione compiacenti e degli altisonanti richiami del Papa, ma il "no alla guerra" è sicuramente per la maggioranza un grido sincero, non viziato da strumentalizzazioni politiche. Il passato insegna, però, che il "no alla guerra" non porta necessariamente alla "pace", anzi a volte prepara tragedie più grandi di quelle che si vorrebbero evitare. Questa è la responsabilità della politica, che non può invocare valori assoluti ma deve operare scelte tra alternative storiche concrete.

In questi giorni alcuni hanno esplicitamente ammesso di sperare in una sconfitta americana che replichi quella in Vietnam. Ero troppo giovane per avere un’idea sul conflitto in Vietnam. Ero abbastanza grande per vedere cosa ha lasciato la sconfitta americana in Vietnam: non pace, ma tirannia e morte. E oggi in Vietnam si pagano ancora le conseguenze terribili di quella sconfitta degli “imperialisti americani”. Basti pensare alle comunità cristiane degli altopiani, i montagnard, vittime di una repressione feroce che continua imperterrita ancor oggi. Questo basta a dire che la guerra in Vietnam fosse una guerra "giusta"? Certo che non basta, ma basta a dire che l'alternativa non era "la pace".

Anche oggi, l’alternativa alla "vittoria" militare angloamericana sarebbe la continuità della morte e della violenza.

Marco Pannella e i radicali si sono battuti perché al disarmo di Saddam e alla consegna delle sorti dell’Iraq nelle mani degli iracheni, finalmente liberi e con istituzioni improntate alla democrazia, si arrivasse con gli strumenti della politica e della diplomazia. Il fronte dei paesi democratici avrebbe potuto e dovuto muoversi attraverso una pressione comune che rendesse inevitabile l’esilio di Saddam a cui far seguire, come nella proposta radicale, un governo provvisorio sotto l'egida dell'ONU, che potesse preparare la transizione verso la libertà e la democrazia per gli iracheni.

Il dramma della politica europea è stata la mancanza di un’alternativa all'intervento militare che non fosse, di fatto, lo status quo di sopraffazione e di negazione dei diritti umani. Questo ha portato Tony Blair, ex idolo di molti politici italiani che oggi contestano l’intervento armato dopo averlo avallato nella ex Yugoslavia, a compiere una scelta sicuramente sofferta ma decisa. Si doveva aspettare che, Saddam benevolente, il disarmo del regime avvenisse senza colpo ferire attraverso l'opera degli ispettori delle Nazioni Unite? Qualcuno ritiene di sì, ma la condotta di Saddam non può certo essere invocata a testimonianza che ciò sarebbe avvenuto.

Si obietta che vi sono altre parti del mondo dove una guerra feroce falcia vittime innocenti e dove non vi è democrazia, a partire da molte regioni dell'Africa e si dice che la guerra viene fatta per il petrolio. Io non credo che la sintesi "no war for oil" (nessuna guerra per il petrolio) rifletta le vere e complesse ragioni di questo conflitto, ma comunque sia, chi dice "perché non si combattono anche le altre dittature?" rischia di sentirsi chiedere "perché nessuna manifestazione per i montagnard, per i ceceni, per i tibetani o per i cubani....?". Ma facendo solo domande, nessuno arriverà lontano.

b.dellavedova@agora.it

(da 'l Gazetin, APRILE 2003)


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